la regolazione emotiva nel disturbo di panico

10.11.2014 00:00

 “Tutto ad un tratto ho sentito una tremenda ondata di paura. Senza nessuna ragione al mondo. Il mio cuore batteva forte. Sentivo un forte dolore al petto e respirare era sempre più difficile. Ho pensato che stavo per morire”

Il Disturbo di panico fa parte dei disturbi di ansia classificati dal DSM-IV-TR. L’ansia è una delle reazioni umane più diffuse e può essere definita come: “l’anticipazione apprensiva di un pericolo o di un evento negativo futuro, accompagnata da sentimenti di disforia o da sintomi fisici di tensione. Gli elementi esposti al rischio possono appartenere sia al mondo interno che a quello esterno” (American Psychiatric Association).

Il Disturbo di panico è caratterizzato da eccessiva intensità emotiva, mancanza di comprensione delle emozioni ed inadeguate strategie di regolazione emotiva, ovvero le persone con attacchi di panico giudicano le loro esperienze emotive come altamente minacciose (es. che siano sopraffacenti e illimitate nel tempo; che siano un qualcosa di cui vergognarsi, che non deve essere espresso né verrà mai validato, e di essere gli unici a provare determinate sensazioni); tali credenze negative sulle proprie emozioni, in accordo con il modello dello schema emotional therapy (EST) di Leahy spingono a utilizzare stili di coping problematici come l’evitamento esperienziale; con tale espressione, ci si riferisce ai tentativi di tenere sotto controllo o alterare la forma e la frequenza di pensieri, emozioni e sentimenti (o la reattività agli stessi), nonostante ciò determini un danno a livello comportamentale (Hayes et al., 1996).

Altre persone, invece, hanno una visione più positiva - o “adattiva” - delle emozioni; sono quindi più propensi a esprimerle, meno inclini a evitarle e più abili nell’ottenere una validazione per ciò che provano. Le emozioni per loro hanno un senso, sono accettabili e non spaventano, non sono considerate un qualcosa di esclusivo né di eterno, quanto piuttosto una condizione temporanea. Questo secondo gruppo di persone sarà quindi meno incline ad adottare strategie di coping problematiche.

Secondo Guidano (1983), gli schemi disfunzionali nel soggetto con attacchi di panico e disturbi d’ansia in generale, vengono a crearsi all'interno di relazioni di reciprocità con figure di attaccamento rappresentate da genitori iperprotettivi e controllanti, che tendono a trasmettere messaggi di pericolo esterno, di debolezza-vulnerabilità del bambino, e che male tollerano la manifestazione delle emozioni da parte del bambino stesso. Il bambino che cresce in un ambiente di questo tipo tende, così, a costruirsi un'immagine di sé come debole e vulnerabile: da questo nasce la necessità di controllare i pericoli, sia quelli rappresentati dalle forti emozioni, verso le quali il soggetto ha poca dimestichezza, e che vengono controllate, attraverso l'evitamento di sensazioni nuove o improvvise, limitando i cambiamenti e le modifiche nella propria nicchia ecologica, sia quelli provenienti dal mondo esterno.

Una delle caratteristiche che si riscontra nelle persone con attacchi di panico, infatti, è la continua necessità di esercitare il controllo, poiché percepito come stato obbligato e senza alternative (Lorenzini e Sassaroli, 2000), perché costituisce l’unico scenario per la condizione di tranquillità. La ricerca del controllo è consapevole, l’unico modo per tenere a bada le emozioni considerate pericolose. Si riscontra, inoltre, la tendenza all’autovalutazione negativa, in quanto la persona si giudica incapace di far fronte materialmente e/o emotivamente alle situazioni temute.

Nel modello teorico derivante da studi presentati da Tull e Roemer (2007), assume una rilevanza centrale la difficoltà dell'individuo con attacco di panico a modulare le proprie emozioni; in uno studio, 91 soggetti con una recente storia di attacchi di panico non provocati, confrontati con un campione di 91 soggetti sani, hanno riportato livelli significativamente alti di evitamento esperienziale, mancanza di accettazione emozionale e scarsa chiarezza emozionale, quest’ultima si riferisce alle prime due dimensioni del costrutto dell’alessitimia: difficoltà ad identificare i sentimenti e difficoltà a descrivere i sentimenti.

Secondo gli autori, la capacità di regolazione delle emozioni, che consente di modificare l'intensità o la durata delle emozioni, ha una funzione adattiva, poiché facilita la disponibilità dell'individuo ad entrare in contatto con l'emozione e, di conseguenza a sentirla meno minacciosa, e favorisce il perseguimento di specifici obiettivi. All'opposto, i tentativi di annientare l'emozione completamente o in risposta ad un'esperienza emotiva come la paura, la vergogna o altre emozioni negative, sono stati associati a risultati peggiori nella gestione della sfera emotiva. 

Gli individui che hanno attacchi di panico manifestano una tendenza a temere ed evitare le sensazioni interne collegate all'esperienza del panico. Se, allora, alcune emozioni sono percepite come una minaccia a causa delle sensazioni interne che le accompagnano, è possibile che gli individui che sperimentano attacchi di panico accettino meno facilmente degli altri le loro emozioni e siano motivati per questo a sviluppare strategie di regolazione delle emozioni che rispondano ad una funzione di evitamento.

A sostegno delle loro ipotesi, Tull e Roemer (2007) citano anche lo studio condotto da Baker et al (2004), da cui è emerso che pazienti con disturbo di panico, confrontati con gruppi di controllo, manifestavano una maggior tendenza a sopprimere e soffocare l'esperienza e l'espressione di emozioni negative. Come già detto altrove, in letteratura vengono sottolineati sistematicamente gli effetti negativi degli sforzi di controllo dell’esperienza e dell’espressione emozionale basati sulla soppressione, intesa come capacità di non mostrare le proprie emozioni tramite il proprio comportamento, in altre parole espressioni facciali, vocalizzazioni, gesti etc., ad esempio, le frasi che indicano che tale modalità è in atto, possono essere le seguenti: “Quando sono felice cerco di non farlo notare agli altri”, o ancora: “Se provo sentimenti negativi faccio attenzione a non esprimerli”. Nello stesso studio condotto da Baker (2004) i pazienti che soffrivano di Disturbo di panico riportavano, rispetto al gruppo di controllo, una maggiore difficoltà a riconoscere le proprie emozioni.

Risultati analoghi sono emersi dallo studio di Parker et al. (1993), che ha evidenziato significativi livelli di alessitimia nei pazienti affetti da Disturbo di panico. Il costrutto di alessitimia si estende lungo tre principali dimensioni: difficoltà ad identificare i sentimenti; difficoltà a descrivere i sentimenti e uno stile di pensiero orientato all'esterno. Il modello di questi due autori assume, dunque, che la difficoltà nella regolazione delle emozioni (caratterizzata da: non accettazione emozionale, evitamento esperenziale e/o scarsa chiarezza emozionale) può portare l'individuo a percepire le emozioni come incontrollabili e imprevedibili, due caratteristiche, queste, associate con gli alti livelli di paura e ansia riscontrati tra gli individui che sperimentano attacchi di panico.

Tra i vari aspetti del processo di regolazione/disregolazione emotiva che sono stati ampiamente indagati di recente, particolare rilievo ha assunto il costrutto di paura delle emozioni (Williams, Chambless e Ahrens, 1997; Berg et al., 1998). Nello specifico, la letteratura attualmente esistente si è concentrata ad approfondire il ruolo della paura delle emozioni nei disturbi di ansia e dell’umore (Mennin et al. 2005; Tull et al. 2007; Buhr et al., 2009; Giorgio et al., 2010; Mittmansgruber et al., 2009).

La paura dell’ansia assume un ruolo centrale nel DAP, essa scaturisce da un’interpretazione errata e catastrofica di una determinata esperienza e comprende la paura di perdere il controllo quando si è spaventati o eccessivamente ansiosi, così come la paura delle conseguenze fisiche a seguito dell’attivazione fisiologica scatenata da ansia o panico.

Nel DAP, gli stati emotivi vengono vissuti in modo molto intenso e confuso e modulati in maniera spesso disadattiva attraverso l’uso dell’evitamento esperenziale, che risulta essere una strategia inefficace di gestione delle esperienze emotive poiché impedisce all’individuo di rispondere efficacemente a stimoli emotivi, che vengono evitati, ed ha spesso il paradossale effetto di aumentare la sofferenza in relazione a tali stimoli (Wenzlaff e Wegner, 2000; Hayes et al. 2004). L’evitamento rinforza un falso senso di controllo sulle emozioni ed, in ultima istanza, impedisce all’individuo di affrontare efficacemente le proprie esperienze interiori negative. 

L'evitamento esperenziale può inoltre mantenere e rinforzare le associazioni apprese tra le sensazioni corporee legate al panico e la paura e una mancanza di chiarezza emozionale può contribuire nella misura in cui le sensazioni interne vengono percepite come ambigue e, di conseguenza, minacciose.

La paura delle emozioni può inoltre, essere concettualizzata come meta-emozione ed, in quanto tale, come forma di regolazione emotiva.

Il termine meta-emozione (coniato da Gottman, Katz e Hooven, 1997) si riferisce alla reazione emotiva alle proprie emozioni (es. paura rispetto all’essere ansioso). Le metaemozioni sono concepite come emozioni di secondo ordine o secondarie, poiché temporalmente si attivano in reazione ad un’emozione primaria, come la rabbia.

Reagire emotivamente alle proprie emozioni rappresenta una potente risposta automatica in grado di modulare l’esperienza e l’espressione di una determinata emozione. In altre parole, una volta che un’emozione è stata attivata, può a sua volta diventare lo stimolo elicitante di una nuova regolazione.

La tendenza a provare emozioni negative in risposta ad una propria reazione emotiva precedente - ad esempio provare rabbia verso se stessi perché si è arrabbiati - indice questo di una mancata accettazione dell’esperienza emotiva stessa, risulta disadattava e associata a maggiori difficoltà nella regolazione delle emozioni (Hayes, Strosahl e Wilson, 1999).

Quindi la capacità di accettare il provare delle emozioni negative come parte integrante della propria vita è la premessa per lo sviluppo della conseguente capacità di mantenere il controllo sui propri comportamenti anche in presenza di stati emotivi negativi (Gratz e Roemer 2004).

Se un’emozione è considerata minacciosa e indesiderabile, è più probabile che diventi bersaglio di regolazione rispetto ad un’emozione ritenuta desiderabile o non pericolosa ed è più probabile che l’esperienza di quell’emozione aumenti anziché diminuire (Gross e John, 2003).

Le emozioni nei disturbi di ansia e dell’umore non sono disadattive di per sé; ciò che risulta problematico è la durata e l’intensità con cui certe esperienze emotive negative vengono sperimentate (Kring e Werner, 2004). 

Mitmansgruber et al. (2009) hanno sostenuto che le meta-emozioni permettono di spiegare alcuni processi di evitamento e di consapevolezza ed accettazione emotiva. Nello specifico, le metaemozioni negative (paura, rabbia, ansia) favoriscono la mancanza di accettazione dell’esperienza emotiva e quindi promuovono l’uso di strategie disfunzionali di regolazione emotiva (come l’evitamento esperienziale o la soppressione espressiva), le meta-emozioni positive (interesse, empatia) promuovono l’accettazione delle proprie emozioni e quindi la capacità di approcciarsi adeguatamente ad esse (Mitmansgruber et al. 2009). Tale costrutto può essere considerato una forma di regolazione emotiva, volta ad inibire l’esperienza e l’espressione di una determinata emozione ritenuta inaccettabile (Tull et al. 2007; Buhr e Dugas, 2009; Giorgio et al. 2010). Infine, la paura delle emozioni, in quanto meta-emozione negativa, accresce il ricorso a strategie inefficaci di regolazione emotiva che correlano con la psicopatologia.

dott.ssa navarra caterina

 

 

 

 

 

 

 

 

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